domenica 28 gennaio 2007

Non-luoghi


Che cos’è una comunità terapeutica? Un ospedale, una lungodegenza, una casa, una famiglia? Nessuno di questi luoghi. Forse è un non luogo. L’antropologo francese Marc Augé, ha scritto con acuta intelligenza critica: “Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità” (Elèutera Editrice , Milano 1993).
Nasciamo in clinica, muoriamo in ospedale, viviamo in un perenne transito. Si moltiplicano i luoghi che ci offrono solo una occupazione provvisoria: le catene alberghiere, i club di vacanza, i residence, le abitazioni per la terza età. Si estendono le reti di trasporto di persone o di informazioni e le modalità di scambio apersonale: le carte di credito, i distributori automatici, la vendita per corrispondenza.
Marc Augé, antropologo e studioso delle civiltà antiche, si chiede se la nostra società non stia distruggendo il concetto di luogo, così come si è configurato nelle società precedenti. Il luogo infatti ha tre caratteristiche: è identitario e cioè tale da contrassegnare l’identità di chi ci abita; è relazionale nel senso che individua i rapporti reciproci tra i soggetti in funzione di una loro comune appartenenza; è storico perchè rammenta all’individuo le proprie radici.
Allo stesso modo, una comunità terapeutica è un luogo di transito, contrassegna l’identità degli individui solo in quanto in crisi di identità, chi vi abita non ha relazioni autentiche perché prive di una comune appartenenza, è astorica perchè sradica gli individui dalle proprie radici. Un luogo metastorico, dove si può vivere sospesi. E’ vero che inconsapevolmente tale sospensione è usata per proporre processi di cambiamento, ma a volte non sapendo da dove e verso dove, spesso privi dello spessore antropologico necessario.
I luoghi antropologici - tradizionali o moderni che siano - possono essere ben descritti dalle nozioni di centro e monumento. La Casa Bianca e il Cremlino sono contemporaneamente luoghi monumentali, centri di potere, simboli di uno Stato, metafore di una ideologia. La casa in un paese della Sicilia individua la posizione sociale di chi la abita, gli tramanda memorie, gli impone atteggiamenti e consuetudini.
Tutte queste caratteristiche mancano alle strutture che nella nostra società contemporanea sono utilizzate da grandi gruppi di persone. Qui l'identificazione è resa possibile dal passaporto, dalla carta di credito, dal numero di letto in ospedale, da un riconoscimento astrattamente sociale. Non più dalla conoscenza individuale, dal riconoscimento del gruppo. Ne " Il mondo di ieri", Stefan Zweig afferma: "una volta l'uomo aveva una anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano". Stefen Zweig scriveva il libro nel 1946. Da quegli anni il processo di disindividualizzazione della persona è andato progredendo.
I luoghi tradizionali presuppongono una società sostanzialmente sedentaria, un microcosmo dotato di confini ben definiti. I non luoghi, individuati da Marc Augè, sono i nodi e le reti di un mondo senza confini, dove infiniti viaggiatori sono in perenne transito.
Dal viaggio come esperienza della conoscenza, la società contemporanea è arrivata al viaggio come concatenamento di diapositive, cioè di immagini frammentarie e tipiche.
Dal punto di vista architettonico i non luoghi sono gli spazi dello standard. Sono strutture dove nulla è destinato al caso: al loro interno è calcolato il numero dei decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazioni. Sono sicuramente gli unici spazi architettonici dove si è concretizzato il sogno della macchina per abitare, cioè della ergonomia, della efficienza, del confort tecnologico. Una comunità terapeutica è anch’essa una struttura architettonica rigidamente normata da leggi sanitarie, dagli standard di qualità, di sicurezza. Anch’essa come tante strutture sanitarie risente del lungo lavoro di acquiescenza agli standard del non luogo.
Tuttavia il pessimismo di Marc Augé non tiene molto in considerazione le inevitabili reazioni di contrasto all’anomia. Arredare una stanza, scrivere, incontrare i familiari, fermarsi a riflettere sul futuro, attivarsi per la manutenzione, cucinare insieme, uscire insieme, scegliere un programma televisivo o un film, partecipare a una assemblea, organizzare un soggiorno di vacanza, uscire e tornare dopo un piccolo impegno lavorativo……..sedimentano una storia e una cultura, che a volte riescono ad essere matrici di cambiamento.

martedì 2 gennaio 2007

Dionysios Solomos

The last resplendent morning star
heralded the coming of the sun on high
No mist or shadow dared to mar
the sheer perfection of the cloudless sky
from where a gentle breeze would blow
caressing the faces down below
as if to murmur into the heart's recesses
Life is sweet and...
Life is sweet

From: Easter Sunday - a poem by Dionysios Solomos


Dionysios Solomos (Zante 1798, Corfu 1857), di nobile famiglia di origine cretese, formatosi in Italia (1808-1818) a Cremona, a Venezia e all'Università di Pavia, compose i suoi primi versi in Italiano e fu influenzato dall'opera di Ugo Foscolo. Tornato in Grecia (a Zante prima, quindi a Corfu) fu inspirato dalla Rivoluzione Ellenica e adottò la lingua greca. La sua opera più importante è “l'inno alla Liberta” che, musicato in seguito da N. Mantzaros, divenne limitatamente alle due prime strofe l'inno nazionale greco. Altre opere importanti sono “i liberi assediati” dedicato alla eroica resistenza della città di Messolongi, “l'ode a Byron”, “l'Elogio del Foscolo” ecc. Un senso di estrema autocritica gli impedì di portar a termine la maggior parte della sua opera, raccolta e ricostruita in parte dopo la sua morte dall'amico poeta Iakovos Polylas. Verso la fine della sua vita scrisse di nuovo in italiano alcuni abbozzi.

lunedì 1 gennaio 2007

L'Eternità e un Giorno

Il primo dell'anno... un giorno ideale per cedere a riflessioni sul tempo.
Dimensione interiore che la vita in comunità materializza.
Ricordo un film.
"Il tempo è un bambino che gioca ai cinque sassi sulla riva del mare". Questa metafora poetica apre il film di Theo Angelopoulos "L'Eternità e un Giorno".
Alessandro, mentre si prepara a lasciare definitivamente la casa sul mare dove ha sempre vissuto, ritrova una lettera di sua moglie Anna. La donna gli parla di un giorno d'estate di trent'anni prima. Questo dà inizio ad uno strano viaggio, dove il passato ed il presente di Alessandro dolcemente si fondono. Il cineasta greco ci porta a riflettere sui grandi temi dell'esistenza, l'opera fu scritta con Tonino Guerra e vinse la Palma d'oro nel '98 al Festival di Cannes.
"L'Eternità e un Giorno" è un film sul confine tra la vita e la morte, il silenzio e la parola, intesi come capacità di comunicare, di produrre significato nella propria vita, come nei rapporti con gli altri. Il film si apre con una lettera scritta trent'anni prima da Anna (moglie del protagonista, uno scrittore inquieto) in cui esprime tutti i suoi dubbi e le sue paure, tra cui quella di non sentirsi amata da un uomo sempre assente, immerso nel mondo chiuso della creazione artistica, alla continua ricerca di parole, emozioni e sentimenti, che erano lì a portata di mano, ma che non sapeva o non poteva vedere. Dissidio arte-vita dunque, ma anche sentimento del tempo, inteso come perdita, oblio e insieme come recupero memoriale, che solo l'artista può realizzare, strappando parole, ricordi, emozioni all'effimero e al transitorio. Contemporaneamente vediamo un altro protagonista, un poeta greco (forse Dionysios Solomos) che, tornato in patria, compra le parole dalla povera gente, per salvare dalla dimenticanza la sua madre lingua. La perdita dell'identità culturale e linguistica (a cui siamo sempre più soggetti in Europa), accresce la solitudine dell'artista.
Ma "L'eternità e un giorno" è anche un film sul cinema, perché tutto ciò che investe il tempo, investe il cinema, che non è altro che il racconto del tempo. Il film attraverso la rottura dei moduli narrativi convenzionali (discontinuità della narrazione, salti logico-temporali, circolarità narrativa, lunghi piani sequenza, ritmo lento), rimette in discussione il cinema, riformulando così un linguaggio nuovo, incontaminato, di confine appunto. Pertanto il film è anche una metafora sulla forza della lingua, delle tradizioni e della cultura come unico baluardo contro i modelli estetici, morali ed etici indotti dal prorompere della cultura del cinema americano sui nostri schermi; mentre Angelopoulos, seguendo una sua musica interiore si chiede ancora quanto dura il domani... Forse un'eternità e forse un giorno... da noi, al contrario, qualcuno si chiede se può essere l'ultimo nato, e quindi se tutto non sia un eterno ritorno.